Enjoy food, travels and life

I racconti delle nostre zonzolate non sono ancora finiti. Ma dove è che eravamo rimasti?
Ah sì, ci eravamo lasciati qui, a Las Vegas!
E la zonzolata che sto per andare a raccontare è un bel po' che la volevo pubblicare.

Abbiamo lasciato la città del peccato, che non dorme mai, dei grattacieli, della vita frenetica, del lusso, dei casinò e della gente per andare alla volta del deserto californiano, per la precisione quello della Death Valley (Valle della Morte).
A quanto pare per raggiungerla non ci sono né mezzi pubblici, né una linea ferroviaria. Noi provenendo da est (da Las Vegas per l'appunto) abbiamo imboccato la 95 in direzione Reno, svoltato poi verso ovest per la Death Valley Junction e infine continuato sulla strada 190 alla volta di Furnace Creek.

Nella mattinata (il momento migliore per godere di questo luogo al meglio perché si ha il sole tendenzialmente alle spalle) abbiamo fatto una sosta a Dante's View, una terrazza a 1.669 m da cui si gode di una vista davvero stupenda su tutta la valle: dal Coffin Peak (Picco della Bara), alle Black Mountains, fino a Furnace Creek. Nelle giornate di cielo terso come quella che abbiamo trovato noi si possono vedere contemporaneamente sia il punto più alto (esclusa l'Alaska) che il punto più basso degli USA che sono rispettivamente il Monte Whitney (4418 m) e il Badwater (-86 m).

Lasciata la macchina abbiamo imboccato a piedi un piccolo sentiero sassoso e ventoso che ci ha condotto in un punto panoramico straordinario. Non avevamo ostacoli alla vista e potevamo ammirare il paesaggio in tutto il suo splendore.

Death Valley cosa fare e vedere, viaggio USA Nevada deserto bianco Valle della morte america - Nevada on the road

Tornati in macchina ci siamo diretti alla volta dello Zabriskie Point, un'area vulcanica dalla incredibile storia geologica che ci ha ricordato molto il paesaggio di certi luoghi dell'Islanda.
Il tratto di strada che vi sto descrivendo è a pagamento, il costo è di 25 $ a macchina come per tutti i parchi di cui vi abbiamo già parlato.


A causa di un malfunzionamento di alcune macchinette automatiche abbiamo pagato direttamente nel parcheggio di Badwater; mentre in quello che vedete qui sotto abbiamo lasciato la macchina per salire allo Zabriskie Point.


Abbiamo salito una piccola rampa a piedi. Nonostante il caldo (e ricordo che era febbraio) e il sole battente siamo stati ricompensati da una splendida vista di queste straordinarie conformazioni rocciose e sul panorama all'orizzonte.


Al contrario dell'Islanda le cause della vegetazione assente sono da ricondursi alla siccità e alla elevata concentrazione di sale nelle rocce. Il nome del luogo, Zabriskie, deriva dal cognome del vicepresidente della Pacific Coast Borax Company che nel XX secolo divenne famosa per l'estrazione e il trasporto di borace (un composto di boro) dalle miniere della Death Valley tramite muli e cavalli.


Dopo un pasto a buffet al Furnace Creek Steakhouse Death Valley, dove attualmente dietro al Furnace Creek Ranch è esposto un vecchissimo trattore a vapore chiamato Old Dinah che veniva utilizzato a Calico, un paese di minatori raccoglitori d'argento, ci siamo diretti alla volta di Badwater.

Badwater, "acqua cattiva" come dicevo poc'anzi, è il punto più basso (a -86 m sotto il livello del mare) della Death Valley, una valle depressa stretta circa quaranta chilometri circa e lunga 255 km.
Il nome "acqua cattiva" deriva dal fatto che la poca acqua presente in questo clima desertico non era potabile, per cui nemmeno gli animali assetati delle carovane potevano usufruirne.


So che si vede malissimo nella foto seguente, ma se fate caso, più o meno a un terzo di altezza partendo dalla testa dell'omino nero al centro in basso si può vedere una piccola scritta. Lì è indicato il punto in cui si troverebbe il livello del mare.


Ovviamente abbiamo goduto del posto il più possibile. Oltre che un clima piuttosto favorevole visto il periodo invernale abbiamo potuto apprezzare anche il calare della luce sulla distesa salina davanti a Badwater. Abbiamo camminato sul sale per un po' ammirando il paesaggio davvero indimenticabile che ci circondava.


Ecco un altro punto di vista della distesa salina con le luci del tramonto che calavano sulla Death Valley. Amazing!


Non abbiamo potuto fare a meno di fotografare un cartello che riporta le condizioni climatiche della Valle della Morte. Il clima è arido e non piove praticamente mai; l'unica sorgente si trova a Furnace Creek e la temperatura diurna da maggio a settembre è davvero cocente: 45 °C come media con punte che toccano anche i 50 °C. Noi essendo a febbraio abbiamo trovato condizioni meteo davvero favorevoli per godere al massimo dello splendore della zona.


In estate è consigliato, proprio a causa delle temperature estreme di circolare nella tarda serata, dalle 17 in poi o la mattina molto presto per godere del protrarsi del rinfresco notturno.


Potevamo poi non fare qualche bischerata approfittando dello sfondo e delle prospettive che il deserto offre? Ma certo che no! Eccomi qua terrorizzata mentre vengo inghiottita da una tazza di caffè. ;-)


E infine ecco un paio di foto sulla strada che abbiamo lasciato alle nostre spalle e il modo favoloso con cui la Death Valley ha voluto salutarci.


A presto, speriamo, con una nuova meta zonzolosa. Stay tuned! :-)


Passaporto napoletano. Segni particolari: pomodori, capperi e olive. Pare però che le sia stata attribuita la cittadinanza onoraria laziale con l'aggiunta di filetti di alici.
Talvolta però si sente parlare di puttanesca tradizionale campana con le alici e quindi ci si chiede: "Ma chi è che ha ragione?"
E' sempre difficile dirlo e forse non vale nemmeno la pena cercare fino in fondo la risposta.
La soluzione in questi casi per me è pura questione di gusti.
E poi siceramente manco mi importa al momento.
Stiamo a fare la guerra dell'alice salata? A che pro?
Questione di orgoglio? Campanilismo? Passaporto?
No, non mi va. Non adesso. Non mi ci metto a litigare per un povero pesciolino.
Il vegetariano lo tolga, il carnivoro lo metta.
L'amante del pesce lo metta, chi è allergico lo tolga.
Per me quella con le alici (pesce azzurro ricco di Omega-3) è una gran bella puttanesca (my way) e quindi la metto. Magno, punto e basta.

Spaghetti alla puttanesta ricetta pasta olive capperi - Pasta puttanesca italian recipe tasty and easy

Spaghetti alla puttanesca (laziale)

Preparazione: 5 min.Cottura: 15 min.Riposo: nessuno
Porzioni: 4 Kcal/porzione: 500 circa
Ingredienti:

  • 360 g di spaghetti
  • 20 g di olio extravergine di oliva
  • 2 spicchi di aglio grossi
  • 500 g di pomodori maturi (o in alternativa se non è stagione peso equivalente in pelati)
  • 150 g di olive nere snocciolate
  • 1 peperoncino essiccato
  • 2 cucchiai di capperi sotto sale
  • 8 filetti di acciuga sotto sale (i fatidici!)
  • Prezzemolo q.b.
Preparazione:

  1. Preparare la pasta mettendo a cuocere gli spaghetti in abbondante acqua salata.
  2. Nel frattempo schiacciare gli agli e metterli a rosolare con il peperoncino in una padella antiaderente con l'olio.
  3. Aggiungere i filetti di acciuga (io li risciacquo per togliere il troppo sale in eccesso) poi unire i pomodori maturi tagliati a cubetti (o i pelati).
  4. Tagliare le olive a rondelle (o lasciarle intere secondo le preferenze), dissalare sotto l’acqua corrente anche i capperi e unire poi il tutto al sugo. Regolare di sale (di solito non serve).
  5. Scolare la pasta piuttosto al dente, versarla in padella con il sugo e saltarla fino a che non sarà ben al dente (circa un minuto).
  6. Servire cospargendo con del prezzemolo tritato molto finemente.
www.zonzolando.com © - All rights reserved


Un piccolo annuncio prima di chiudere. Come molti ormai sanno dal 1 luglio 2013 Google Reader chiuderà; per evitare di perdere tutti i blog che seguo mi sono iscritta a Bloglovin'. Se avete piacere di non perdere la lettura di questo blog potrete seguirmi anche voi su Bloglovin qui: Follow my blog with Bloglovin.
Grazie di cuore a tutti! :-)


Che dite? Sarà anche l'ora di raccontarvi della mia zonzolata in Svizzera?
A quasi un mese dal viaggio e dopo oltre tre settimane che latito vergognosamente dalla blogosfera direi che è giunto il momento del "Swiss Cheese Time".
(Che poi... mica che in questi giorni me ne sono stata in panciolle eh! Robe da ricordarsi di prendere almeno il tempo per respirare, ma questa è un'altra storia...)


Vi avviso: è un post molto corposo, denso di esperienze e soprattutto di formaggi squisiti con i loro dettagli. Ho cercato di raccontare il più possibile, soprattutto delle caratteristiche di una delle materie che amo di più: il formaggio.
Tutto è cominciato così e così, e vi assicuro che come inizio non è stato davvero male ;-9, ma mai e poi mai avrei detto che avrei avuto l'opportunità di fare un'esperienza così bella e piacevole come quella che ho potuto vivere a fine maggio scorso.

Il Switzerland Cheese Marketing Italia rappresenta in Italia l'omonima società svizzera con sede a Berna, che riunisce produttori, esportatori e consorzi dei formaggi elvetici. Il suo obiettivo principale è diffondere e approfondire la conoscenza di questi prodotti di antica tradizione, affermata qualità ed eccellenza della gastronomia svizzera.
Ciò a cui abbiamo partecipato è stato un educational per foodblogger sui formaggi svizzeri; in sostanza tre giornate di formazione sulla caseificazione di formaggi svizzeri seguita ovviamente dalla loro degustazione (certe volte è proprio dura la vita da foodblogger ;-) ).

Il nostro tour svizzero è partito da Berna, per la precisione con un pranzo all'Altes Tramdepot dalla cui terrazza all'aperto potevamo godere di questa splendida vista.


Era la prima volta che incontravo dal vivo altre foodblogger ed stato proprio tra il viaggio in treno da Milano e questo pranzo in terrazza che abbiamo rotto il ghiaccio e ci siamo conosciute meglio.
Con me c'erano (in ordine sparso):
Barbara de "La cucina di Barbara"
Luna de "I Pasticci di Luna"
Manuela di "Sweetie's Home"
Patricia di "Aroma di casa"
Alex di "Ombra nel portico"
Claudia de "La femme du chef".
Questi sono alcuni dei piatti che abbiamo assaggiato: dalle salsicce con rosti svizzero (manco a restare senza!) a bretzel e insalate. Buono, nonché una vera botta di vita. :-)


Nel primo pomeriggio ci siamo trasferiti nella zona dello Jura, regione davvero splendida dove abbiamo avuto occasione di visitare il birrificio "Brasserie des Franches-Montagnes".


Ci hanno accolto con una breve ed esaustiva presentazione dei materiali di base per preparare i diversi tipi di birra tra cui il malto nelle versioni: normale, caramellato o tostato che a seconda del suo impiego regala il caratteristico colore rispettivamente biondo, ambrato o scuro alla birra.


Abbiamo poi visto le varie fasi di lavorazione della birra che infine veniva immagazzinata in queste botti dove continuava la fermentazione del prodotto. A guardiano della cantina c'era questo splendido gattone che affatto intimidito si è messo in posa e ha fatto la sua bellissima sfilata in mezzo a noi blogger.


A conclusione della visita una piccola degustazione di alcuni tipi di birra accompagnati da una torta salata, pane, salumi e una fortissima senape anch'essa prodotta in loco.
La mia birra assaggiata preferita? Quella al tè verde fatta interamente con prodotti biologici; è arrivata anche a casa per la gioia del mio Massi che se l'è gustata bella fresca e in santa pace.


Ovviamente però i tipi sono tanti e per un sacco di gusti. Ecco quella tradizionale aromatizzata allo zenzero per esempio.


E la cena? Una incredibile cena in carrozza!
Sì, avete capito bene! Siamo salite su una carrozza trainata da due cavalli e mentre loro passeggiavano nella campagna di Chaux-des-Breuleux noi mescolavamo a più non posso i formaggi per creare quella che sarebbe stata la nostra famigerata cena: una fonduta, realizzata con non poche difficoltà vista la temperatura gelida. Un vero spasso però e sicuramente un'esperienza davvero unica.


Questa nella foto sotto era la base di partenza: un trito di formaggi svizzeri con aglio e scalogno. Purtroppo il freddo della sera, come dicevo appena sopra, non ci ha aiutato nello scioglimento e solo con la mano esperta della nostra traduttrice Patrizia siamo riusciti a gustare questa cena strameritata. Sarà stato il freddo, sarà stata la fame, saranno stati i buoni formaggi ma per me questa fonduta era veramente una bontà, tant'è che non ho foto del prodotto pronto.


La mattina seguente abbiamo visitato un caseificio di Tête de Moine DOP; e qui allora devo aprire un capitolo apposito per questo fantastico formaggio che io letteralmente adoro.
Lo ammetto, questo formaggio mi ha colpita ed è entrato di diritto nella mia top five soprattutto nella sua versione stagionata.

Insomma ecco a voi dopo tanto elogio il Tête de Moine!


Questo formaggio, conosciuto anche con il nome di Fromage di Bellelay, è davvero caratteristico e impossibile da confondere. La maniera più consona per gustarlo non è tagliarlo, ma affettarlo sotto forma di rosette ottenute con la raschiatura della sua superficie con un apposito strumento chiamato "Girolle" (inventata solo nel 1982). La Girolle permette di ottenere strati così sottili da far arricciare il formaggio e formare per l'appunto queste straordinarie rosette che a me ricordano tanto i fiori di garofano.


L'origine di questo formaggio risale a molto tempo fa: le prime testimonianze infatti lo ricollegano al monastero di Bellelay intorno all'anno 1192. Ad oggi il monastero è visitabile e all'interno si può anche fare il tour di un piccolo museo che ospita la storia del Tête de Moine e un ricco campionario di Girolles.


Pare che questo formaggio venisse usato come mezzo di pagamento. La sua produzione è arrivata fino ai giorni nostri e l'invenzione della Girolle® lo ha reso ancora più famoso in tutto il mondo.

Letteralmente Tête de Moine in francese significa Testa di Monaco.
Ci sono due possibili interpretazioni di questo particolare nome:
1) la prima che risale all'epoca della rivoluzione francese alluderebbe al fatto che la raschiatura del formaggio ricorda la tonsura dei monaci. Un piccolo video nel museo spiega infatti in modo divertente che i monaci si alzavano di nascosto nel cuore della notte per fare qualche spuntino con questo delizioso formaggio e per non farsi beccare proprio a commettere un peccato di gola, anziché tagliarlo a pezzetti, toglievano la crosta superficiale in alto e poi raschiavano con un coltello fettine sottilissime di formaggio in senso orizzontale. Finito lo spuntino richiudevano il formaggio con la crosta e riponevano nuovamente il tutto al suo posto. Furbetti sti monaci eh! ;-)

2) la seconda è che in alcuni racconti giurassiani (della zona dello Jure) viene citata la quantità di formaggio immagazzinata nel monastero "a testa", ovvero per ciascun monaco.


Il Tête de Moine è un formaggio a pasta semidura dalla consistenza che si scioglie in bocca. Viene prodotto a partire da latte crudo (che come ho già scritto più volte in questo blog, significa non pastorizzato) che quindi mantiene la sua naturale microflora.
Viene rigorosamente prodotto senza additivi, con latte vaccino proveniente da mucche nutrite con foraggio non insilato, cui vanno aggiunti caglio, fermenti lattici naturali e sale.

Fermenti lattici impiegati

I produttori di latte, i casari e gli stagionatori ricorrono a moderne apparecchiature, ma restano fedeli ai metodi tradizionali che richiedono più tempo rispetto alla produzione casearia industriale.
Le forme di formaggio vengono lasciate stagionare per almeno tre mesi nella regione di origine su assi di abete rosso. La cosa che mi ha molto colpita è che questo formaggio viene fabbricato solo in nove caseifici di paese con moderne apparecchiature, ma secondo metodi tradizionali che richiedono cura e tempo.


La fornitura del latte viene fatta due volte al giorno ed è proveniente dall'area geografica del DOP. L'unico trattamento autorizzato è la scrematura naturale, mentre come ho già detto la pastorizzazione è vietata.
Dopo l'aggiunta del caglio e dopo un controllo qualitativo, il latte viene versato in una caldaia di rame. Viene in seguito rimestato, in modo da raggiungere una temperatura omogenea tra il latte della sera precedente e quello del mattino, e riscaldato a una temperatura inferiore a 38 °C.
Questa è la temperatura naturale del latte quando esce dalle mammelle delle mucche. In seguito si aggiunge presame, un prodotto naturale che fa coagulare il latte. La fase di coagulazione, durante la quale il latte si rapprende trasformandosi in una massa gelatinosa, si conclude dopo una trentina di minuti. La cagliata viene poi rotta con una lira in granuli di dimensioni omogenee e poi ancora viene riscaldata a una temperatura compresa tra 46 e 53 °C, per far fuoriuscire il siero.


La massa viene estratta dalla caldaia e viene pressata all'interno di stampi perforati; in seguito le forme vengono ulteriormente pressate e girate affinché tutto il siero venga espulso. Ogni forma viene munita di un marchio di caseina sul quale sono indicati il numero di ammissione del caseificio e la data di fabbricazione in modo da garantire la tracciabilità di ogni singola forma.


Il giorno successivo le forme vengono immerse per almeno dodici ore in un bagno di sale e acqua. L'assorbimento del sale favorisce l'espulsione dei liquidi e favorisce la formazione della crosta. Ha inizio così il periodo di stagionatura che dura almeno settantacinque giorni su assi di abete rosso in una cantina umida (90% di umidità dell'aria) a una temperatura di 13-14 °C. Per favorire la formazione della cosiddetta morchia sulla crosta e la maturazione dall'esterno verso l'interno, il formaggio viene spazzolato con una miscela di acqua salata e colture di batteri e rigirato spesso.

I controlli qualitativi sono effettuati secondo i criteri definiti nell'elenco degli obblighi DOP. Tre esperti valutano la qualità del formaggio in base a quattro criteri fondamentali: l'aspetto, l'occhiatura, la pasta (colore, idoneità ad essere raschiata) e, naturalmente, l'odore e il gusto. La valutazione viene effettuata su una scala di cinque punti per criterio. Gli esperti possono assegnare al massimo venti punti a un formaggio. Nessun criterio può essere valutato con meno di quattro punti. Per poter portare l'appellativo Tête de Moine, il formaggio deve ottenere almeno diciotto punti e se questo non accade il formaggio viene declassato e non potrà essere venduto con il nome di Tête de Moine.

Per produrre un chilo di questo formaggio occorrono più di dieci litri di latte.
La sua forma è cilindrica con un diametro tra i 10 e i 15 cm, e un'altezza tra il 70 e il 100% del diametro.
Generalmente una forma pesa tra i 700 e i 900 g. I valori nutritivi medi per 100 g sono: acqua 35 g; proteine 25 g; grassi 35 g; sali minerali 4 g; kcal 419.

Il Tête de Moine va conservato in frigorifero, ricoperto in modo da mantenere la sua umidità. Le rosette migliori si ottengono infatti dal formaggio appena tolto dal frigo.
Il Tête de Moine DOP Riserva è quello che mi ha colpita di più! Con la sua stagionatura minima di quattro mesi acquista un sapore e un aroma unici! Si riconosce per la carta d’alluminio dorata.

Nel pomeriggio ci siamo poi trasferiti nella valle dell'Emme.
Potevamo noi, immerse fra i formaggi, non cimentarci nella preparazione di una forma tutta nostra? Assolutamente no! E allora ad Affoltern questo simpaticissimo signore ci ha guidate nella trasformazione del latte per creare il nostro Swissblogcheese!


Ecco le forme vuote che sono state poi riempite con il nostro formaggio. Come delle streghe ad un calderone, sotto le indicazioni precisissime del nostro amico, abbiamo mescolato e mescolato. Vi farò sapere fra qualche mese, quando mi arriverà a casa il mio pezzettino, come è venuto.


La nostra seconda giornata si è conclusa con una deliziosa cena all'Hotel Moosegg.


Purtroppo ho dimenticato di fotografare la vellutata di asparagi, ma il resto dei piatti che abbiamo gustato eccolo qua sotto:


La terza giornata è stata all'insegna della scoperta dell'Emmentaler DOP.
Oltre al ricco latte della valle gli unici ingredienti utilizzati sono da secoli il caglio, i batteri lattici provenienti dall’area di origine, i batteri propionici, il sale da cucina e l’acqua cristallina delle valli svizzere. Il latte, dopo essere stato mescolato con caglio e batteri, coagula dopodiché viene arpeggiato, mescolato e scaldato.
Come al solito la pasta viene poi trasferita nelle forme, pressata e girata regolarmente. Viene poi effettuato il classico bagno di sale grazie al quale inizia a formarsi la crosta.


Pensate che per ottenere una singola forma di Emmentaler DOP (circa 80-100 kg) occorrono la bellezza di milleduecento litri di latte. Durante la fermentazione i batteri dell’acido lattico decompongono il lattosio e liberano anidride carbonica. Il gas viene trattenuto dalla solida crosta del formaggio; è per questo che si formano le caratteristiche bolle che tutti conosciamo.


Ogni singola forma di formaggio Emmentaler DOP è così unica nel suo divenire da meritare oltre al marchio in caseina, il numero del caseificio produttore impresso sulla crosta a garanzia della caratterizzazione e della totale tracciabilità.


Consultando l’elenco degli oltre duecento caseifici produttori di Emmentaler DOP è possibile identificare la specifica provenienza di ogni singolo pezzo di formaggio. La stagionatura varia da quattro a oltre dodici mesi.


E infine vi voglio parlare anche, chiudendo la carrellata dei nostri assaggi, di un altro formaggio straordinario: il Gruyère.
Anche per questo formaggio il latte arriva due volte al giorno da allevamenti limitrofi e da vacche cresciute senza l’uso di insilati. Per una singola forma da trentacinque chili occorrono almeno di quattrocento litri di latte.


Nelle fasi di produzione del formaggio entrano in gioco anche fattori differenti come l'umidità e la temperatura dell'ambiente. Il tutto viene trasferito nella caldaia alla temperatura ideale e successivamente spezzettato dalla lira in piccolissimi grani. Le mani esperte del casaro valutano al tatto la grandezza e la consistenza giusta dei grani di formaggio.


La cagliata viene poi trasferita e pressata nelle forme pronte adesso per il bagno di sale e la definitiva stagionatura. Attraverso la prima pressatura il siero che esce dalle forme viene raccolto in una vasca sottostante ed essendo un prodotto molto nutriente e naturale viene dato in pasto ai maiali. Successivamente il casaro inserisce il marchio di riconoscimento Gruyère DOP contrassegnato con il numero della forma, il numero del caseificio e la data di produzione.
Nella stagionatura, che avviene in cantine con una temperatura dell'aria tra 13-14 °C per un periodo che varia da cinque a dodici mesi, le forme vengono girate, lavate e spazzolate con acqua salata per evitare la formazione di batteri e muffe.


Per un Gruyère dolce servono almeno cinque mesi di stagionatura, otto mesi per uno semisalato, circa dieci mesi per un formaggio salato.
I valori nutritivi medi per 100 g sono: acqua 36 g; proteine 27 g; grassi 32 g; sale 5 g; kcal/100g: 398.

Infine ecco l'ultimo favoloso pranzo alla Gourmanderie De Moleson a Berna. Questo è il poco che sono riuscita a fotografare ma spero che renda l'idea.


Impossibile non concludere questo post con un'immagine davvero stupenda e rappresentativa di questo viaggio: un magnifico (doppio) arcobaleno tra le montagne svizzere che il tempaccio ha voluto regalarci proprio in occasione dell'ultima cena che abbiamo fatto.



Torna su